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Francesca D’Amico
Francesca D’Amico

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Ho visto abbastanza per capire che mi mancava un pezzo

Il giornalismo come scienza parte da una premessa semplice: i fatti sono ipotesi da verificare con metodi pubblici. Un titolo non è una verità, è un punto di partenza. La raccolta delle prove — documenti, dati, testimonianze, osservazioni sul campo — segue protocolli di tracciabilità: chi ha detto cosa, quando, con quali interessi e quali limiti.

La verificabilità è il suo criterio di demarcazione. Come in laboratorio, si cercano fonti indipendenti e ripetibilità dell’informazione: la stessa affermazione deve poter essere controllata da altri. Le versioni alternative sono considerate “ipotesi concorrenti” e vengono testate finché non restano soltanto le spiegazioni più robuste.

La metodologia giornalistica integra strumenti quantitativi e qualitativi. Dalle banche dati ai registri pubblici, dall’analisi di rete al fact-checking manuale, fino alle interviste in profondità: triangolare metodi riduce l’errore e illumina le zone d’ombra. Anche il dubbio è un dato: si dichiara, non si nasconde.

L’etica funziona come normativa interna della ricerca. Trasparenza sugli eventuali conflitti di interesse, tutela delle fonti, proporzionalità tra interesse pubblico e danno potenziale: queste non sono “buone maniere”, ma condizioni epistemiche per produrre conoscenza affidabile. Senza etica, il risultato è contaminato.

Infine, la divulgazione. Un buon articolo rende replicabile l’indagine: cita documenti, spiega il metodo, mostra i limiti. La forma non è solo estetica ma parte del contenuto: chiarezza, contesto e precisione permettono alla comunità di validare, confutare o estendere il lavoro. Così il giornalismo diventa un sapere cumulativo.

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